Bollicina. Il viaggio di una coppia nella Procreazione Medicalmente Assistita
— di Emanuela Parenza, mamma
Questa è la storia che, tra dolore, risate e saldissime strette di mano, è capitata in sorte a mio marito ed a me. L’esigenza di raccontarla è nata nelle corsie affollate della Clinica Mangiagalli, quando abbiamo realizzato, guardandoci intorno, che storie come la nostra sono tantissime, eppure sembra che nessuno abbia il coraggio di parlarne o, tantomeno, di riderne. È durata tre anni. Il primo anno abbiamo cercato, invano, un figlio; il secondo abbiamo cercato cure e dottori; il terzo anno abbiamo trovato un percorso di Procreazione Medicalmente Assistita alla Mangiagalli del Policlinico di Milano.
L’inversione a U
Coloro che al giorno d’oggi decidono di avere un figlio stanno vivendo, probabilmente, la stagione adulta della loro esistenza e vanno lasciandosi alle spalle un’esperienza sessuale sommariamente appagata, che hanno vissuto sotto l’egida di tre leggi sacre: 1. cerca, al possibile, di divertirti; 2. scansa, altrettanto al possibile, i cretini; 3. evita, con tutti i mezzi a tua disposizione, le malattie sessualmente trasmissibili e le gravidanze non pianificate.
Chi decide di avere un figlio, dunque, deve prima di tutto fare in modo che la parte del cervello che governa l’intenzione rielabori informazioni incamerate dalla notte dei tempi (evitare gravidanza) e le riadatti, cambiate di segno (volere gravidanza). Proverò con un’immagine: serve che il cervello compia in corsa una clamorosa, roboante, piuttosto spettacolare inversione a U. Così, una certa domenica mattina che ricorderò per sempre, io e mio marito, partner in crime, affacciati da un balcone metaforico sopra la folla oceanica ugualmente metaforica dei nostri organi riproduttivi, pronunciammo un discorso alle truppe: “Popolo. Questa è l’alba di una nuova era: il fatale nemico s’è fatto oggi obiettivo. Invertite la marcia, arditi girini: un testa coda e rimettetevi in pista. La direzione è cambiata”. Fu così che cominciammo a cercare di far nascere un bambino.
Nausea da jet lag
Ripenso ora, e mi fa tenerezza, all’immagine di me i primi mesi di tentativi. Coltivata in un terriccio catto-comunista che considera, come abbiamo detto, la gravidanza in età prematura un rischio da fuggire, e i rischi, lo sanno dio, la catechista e la mamma, sono sempre dietro l’angolo, due ore dopo aver avuto il mio primo rapporto non protetto ero già convinta di essere incinta. Per di più, tornavo da un viaggio oltreoceano, e pativo di tutti i malesseri del jet lag: nausea, sonnolenza, mal di testa, irrequietezza. Nella mia testa, ero inequivocabilmente già incinta. Ho poi riso un pomeriggio quando ho scoperto che la finestra in cui è veramente probabile che avvenga un concepimento è di circa 48 ore in un mese. Facendo un calcolo spannometrico, significava che per i precedenti dieci anni le volte in cui avevo davvero rischiato una gravidanza corrispondevano a circa 24 giorni ogni anno, mentre per i restanti 341 giorni mi ero fatta, in sostanza, paranoie. Meno di un mese per la fisiologia, praticamente ogni volta che un bel ragazzo mi sorrideva in un pub, per la mia testa.
Le orride cicognine
Nei mesi successivi, visto che nulla succedeva, mi sono fatta persuasa, da inossidabile cultrice del metodo empirico, che quello che dovevo fare era innanzitutto capire, documentarmi. Sono così cominciati i miei ripassoni notturni di biologia. A notte inoltrata, mentre King G. già mi dormiva di fianco, io tiravo il cuscino sopra la testiera del letto, e con il mento illuminato dalla luce bluastra del telefonino mi mettevo a cercare su internet. Abbastanza presto sono scivolata da siti scientifici a orridi forum dai nomi inquietanti, dove mi ritrovavo a spulciare in chat senza fondo tra donne di età diverse, che raccontavano variamente angosciate le loro esperienze, riempivano i loro post di faccine, punti esclamativi e sospensivi, e parlavano tra loro con un linguaggio che mi inorridiva: “e…. buona cicogna a tutte (7 punti esclamativi e 1 faccina)” scriveva per esempio una di loro, prima di firmarsi. Ho avuto la netta sensazione di essere all’ingresso di una selva piuttosto spaventosa: c’era un buco nero lì davanti a me e ho capito che stavo per cacciarmi dentro. Sarebbe stato sano smettere di leggere, quantomeno, ma non era facile resistere alla tentazione, e così, dopo ogni insuccesso, mi ritrovavo ad accettare compulsivamente centinaia di cookies e finivo sempre nelle stesse chat. Non è stato tutto inutile, a dire il vero. Leggendo le storie delle abominevoli cicognine ho imparato che individuare i giorni in cui è probabile un concepimento solo con il calendario può non essere sufficiente: esistono in commercio strumenti per effettuare calcoli più attendibili. Non sono mai stata capace di tutelare le mie finanze e così sono placidamente planata sulla soluzione più costosa: stick per il monitoraggio dell’ovulazione, da fare uno al giorno, decine di euro a scatola.
Wednesday night fever
Non lo nego, ci siamo anche molto divertiti. Non solo perché un incentivo a una più attiva vita di coppia è sempre manna dal cielo, ma anche perché abbiamo cominciato a vivere delle situazioni surreali, che non sempre erano romantiche, ma certe volte erano estremamente divertenti. La Sorte, come è noto, ha un fortissimo senso dell’ironia, per cui succedeva che io facessi diligentemente il mio stick ogni santo giorno, contando soprattutto sui sabati sera, in cui potevamo sfoggiare abiti migliori, ascoltare la musica giusta, bere metodo classico, prendercela con calma. Tuttavia, il giorno in cui compariva la maledetta seconda lineetta era sempre una sera infrasettimanale, in cui eravamo così stremati da non riuscire neanche a trovarci i rispettivi sederi con le mani. Ingrigiti e sgualciti dopo una giornata d’ufficio, i nostri corpi bramavano liquefarsi sul divano, non certo adempiere alle loro primarie funzioni biologiche. Ma noi siamo due arieti molto ligi alle regole e fermi nel raggiungimento dei nostri obiettivi. Anche nelle sere più stropicciate non ci siamo mai sottratti al dovere.
Bolonia e Bobiliana
Abbiamo capito che qualcosa non andava circa 425 euro di stick dopo, ovvero dopo una dozzina di mesi. Con le due nostre lauree umanistiche abbiamo concluso che le poche informazioni della rete non bastavano più e così ci siamo rivolti ai medici. Racconterò in breve quello che in realtà è durato a lungo e non è stato semplice sul piano emotivo. Per di più trovare in una metropoli un dottore di fiducia è difficile come trovare il lievito di birra in un supermercato a ventotto corsie (vi sfido a provarci). Ad ogni modo, dopo un po’ di ricerca e qualche buon consiglio, ne abbiamo individuati uno per ciascuno: un andrologo per King G., un ginecologo per me. Sfortunatamente, i due si chiamavano quasi allo stesso modo (facciamo che inventiamo due nomi di finzione: dott. Bobiliana il mio, dott. Bolonia il suo). Altrettanto sfortunatamente, io faccio una tale difficoltà a memorizzare i nomi che penso di soffrire di un disturbo specifico dell’apprendimento mai diagnosticato. Davanti alle reception di tutti gli ospedali e gli studi dove siamo andati in quei mesi, l'ouverture si ripeteva, identica:
“Buonasera, abbiamo un appuntamento con il dottor Bobiliana” – dicevo bonaria a Gentile Segretaria, poggiando le mani sul desk. “Sbamb!” suonava la gomitata di King G. alla mia costola destra, seguita dal sibilo “questo è Bolonia!”. “Ehm, mi scusi, con il dottor Bolonia” mi correggevo io, aprendomi in un sorrisone paraculo. Faccia interdetta di Gentile Segretaria. “Accomodatevi”. Sipario.
Facevamo poi ingresso nelle sale d’attesa ridendo e dandoci manate sconsolate sulla faccia e intimandoci a vicenda di non fare casino. Quando, dopo dozzine di vani tentativi, il nostro caso è arrivato sulle scrivanie dei dott. Bolonia e Bobiliana si è chiuso il primo anno della nostra avventura. Cosa ci riservava la sorte?
La prima salita
Con l’indagine diagnostica è cominciata la prima vera salita. A quel punto era scoppiata la pandemia, Milano era ammutolita dalla paura e il nostro umore era abbastanza mogio. Ci hanno consegnato quattro fogli A4 di esami da svolgere (fronte e retro).
Sembrava non ci fosse nulla di più spaventoso che andare negli ospedali, ma noi ci dovevamo andare per forza e siamo certamente finiti nell’inquadratura di qualche collegamento di un TG (se qualcuno volesse cercarci negli archivi, siamo i due in fondo alla scena che si affannano, gesticolano, corrono e si mandano a quel paese cercando di capire quale degli ottanta ingressi è quello dell'accettazione).
Era gennaio, faceva freddissimo, prendevamo la tangenziale per quell’ospedale enorme alle sei del mattino, a digiuno, con complicatissime impegnative dei medici e spesso vario materiale organico opportunamente imbustato nelle tasche dei giubbotti. Quante code abbiamo fatto, bardati, morti di sonno e atterriti dalla paura di contrarre il coronavirus. Ma dopo decine di volte, avevamo anche sviluppato una discreta abilità: primo triage Covid. Numeretto. Coda. Secondo triage Covid. Numeretto e accettazione. Seconda coda. Poi seguire la linea blu, scendere di un piano, arrivare all’ultima accettazione (Il PUNTO BLU, come il gioco dell’oca), trovare il corretto codice dell’esenzione, pagare, consegnare i campioni.
Certe volte le cose andavano per le lunghe, i codici non coincidevano, le file si ingolfavano, i sanitari esasperati rispondevano male, finiva che passavano troppe ore e i campioni raccolti andavano buttati. Mattinata persa, ore di permesso chieste a lavoro sprecate e bisognava rifare tutto da capo.
Servivano nervi saldi. Non sempre li abbiamo avuti.
Le scarpe da trekking
La seconda salita è stata scartare i referti: messo nero su bianco c’era quello che in realtà avevamo già intuito da tempo, ma leggerlo ha fatto male. Eppure, seduti fianco a fianco sul divano di casa, curvi sullo stesso foglio pieno di valori sotto il range e asterischi, ci siamo amati moltissimo.
Io sono meridionale, ho la tragedia nel sangue, facilmente mi sarei lasciata andare a uno scenografico sconforto. Ma il mio teutonico marito, la mia roccia, il mio solido geometrico, appartiene a un’altra civiltà, dio la benedica. Spaventato e triste quanto me, ma santificato dal piglio pratico che il suo meraviglioso popolo ha iscritto nel codice genetico, ha detto quello che qualsiasi montanaro avrebbe detto in una circostanza analoga: “Compriamoci delle buone scarpe da trekking, bisogna cominciare la scalata”.
Il percorso che ci hanno prospettato i dottori, se lo volevamo, sarebbe stato scandito in due fasi; una prima, terapeutica, in cui avremmo tentato una cura farmacologica, e poi una seconda, se la prima non avesse funzionato: un percorso di PMA, la Procreazione Medicalmente Assistita.
Pechino Express ovvero la Fase terapeutica
Giuro che quella che segue è la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità e che nessun farmacista è stato maltrattato per raccontarla.
La cura che ci è stata prescritta prevedeva la somministrazione, tre volte a settimana, di un farmaco in siringhe preriempite da effettuare sulla pancia.
Ora, noi non siamo due coraggiosi, e comunque vi assicuro che la vocazione harakiri è solo dei Giapponesi: piantarsi scientemente un ago nella pancia a sere alterne per tre mesi non è faccenda piacevole. Se le difficoltà si fossero limitate a questo, ad ogni modo, avremmo imparato a gestirle, bastava prenderci un po’ la mano. Il problema, invece, stava nella distribuzione del medicinale. Trattasi di farmaco per cui non basta la ricetta bianca, serve il piano terapeutico. Le case farmaceutiche lo distribuiscono in confezioni da uno (!), ciascuna del valore di svariate decine di euro. Tutta la cura poteva essere coperta dal Sistema Sanitario, ma per ottenere l’esenzione serviva la prescrizione del medico di base il quale, non potendo superare un certo tetto di spesa in ciascuna ricetta, accettava di prescrivere il farmaco ma solo per due scatole alla volta, ovvero due delle tre siringhe che ci servivano ogni settimana.
Per ricapitolare (pregasi leggere le righe che seguono senza pause): per fare la puntura ogni martedì, giovedì e sabato bisognava procurarsi la ricetta delle siringhe del martedì e del giovedì il venerdì prima, il lunedì ordinarle in farmacia, il martedì e il giovedì fare le somministrazioni; per avere quella del sabato bisognava già muoversi il mercoledì tra la prima e la seconda somministrazione in modo da ordinarla il giovedì, ritirarla il venerdì e averla per il sabato. Poi il venerdì si ricominciava per la settimana successiva.
Siamo stati bravissimi, siamo diventati di un’efficienza paurosa: a ripensarci, dovremmo metterlo nei nostri cv. Le settimane sono andate avanti così, senza mai mollare, senza perdere una prescrizione, per tre mesi, da maggio a luglio.
La Guardia Medica
Se il tutto aveva l’occulto scopo di mettere alla prova il nostro desiderio di genitorialità, certamente abbiamo superato il test a pieni voti quando è arrivato agosto.
“La Sanità è regionale” ci ha detto sconsolata la nostra dottoressa, seduta nel suo studio. Tradotto, significava che le sette prescrizioni necessarie per le quindici siringhe di agosto non poteva farcele lei.
Ora, esclusa l’opzione di rimanere a Milano ad agosto a bucarci la pancia ed esclusa la possibilità di chiedere a qualsivoglia amico medico la prescrizione di un farmaco per un valore complessivo di oltre 1.200 euro, non restava che una opzione: la Guardia Medica. Fino ad allora la Guardia Medica era per me un’entità metafisica, evocata nel delirio di qualche febbrone pediatrico di Ferragosto. Nella mia cittadina pugliese ha sede in un anonimo quartiere di cemento, con gli ambulatori che affacciano su un cortile pavimentato dove nessuno ha mai pensato di fare una disinfestazione contro le zanzare (approfitto per fare una pubblica segnalazione). Per tre sere a settimana (la Guardia Medica apre alle 20.00), per tutto il mese di agosto, senza dire nulla a nessuno, eravamo lì in fila, di solito tra un vecchietto con un dito tranciato e una madre con bambino febbricitante avvolto nel plaid. Quando arrivava il nostro turno dovevamo raccontare ogni volta tutta la storia, perché il medico non era mai lo stesso, e vincere la sua resistenza spiegando il foglio del piano terapeutico, che nel frattempo era diventato una Sacra Sindone spiegazzata e umidiccia di sudore da tasca posteriore dei jeans. Lo facevamo a turno, per dividere equamente lo sforzo e la stanchezza, come tutto abbiamo equamente diviso in questa vicenda. Di solito, mentre uno dei due argomentava davanti al medico, l’altro era in secondo piano a schiaffeggiarsi le caviglie, nella speranza di uccidere zanzare e non essere mangiato vivo. A settembre abbiamo rifatto gli esami e, purtroppo, la cura non aveva dato i risultati sperati. Dunque abbiamo deciso di passare alla Fase 2: abbiamo avviato le procedure per un percorso di Procreazione Medicalmente Assistita alla Clinica Mangiagalli del Policlinico di Milano.
Arrivederci alla prossima puntata.
La Fase 2
Essere presi in carico dall’équipe della Mangiagalli al Policlinico di Milano è stato un sollievo; per i due anni precedenti avevamo fatto da soli, invece ora c’era un iter da seguire, con passaggi prestabiliti e figure professionali per ogni passaggio. Ci hanno spiegato ogni cosa con calma ed empatia. Siamo stati in Clinica dozzine di volte, abbiamo incontrato psicologi, ginecologi, ostetriche nelle loro amabili ciabatte ortopediche, anestesisti. Il percorso prevedeva una preliminare fase diagnostica e poi tre passaggi: il prelievo, sotto anestesia, dei miei ovociti; la tentata unione dei miei ovociti al seme di King G.; l’impianto, se se ne fosse creato almeno uno, dell’embrione. Che potevamo fare? Abbiamo messo le scarpe da trekking e abbiamo ricominciato a camminare.
Le sale d’attesa
Solo nelle corsie della Mangiagalli mi sono resa conto della portata di quello che stavo vivendo: la quantità di persone che non riesce ad avere figli raggiunge numeri spaventosi, si legge sui giornali o nei report ISTAT, ma vederlo con i miei occhi faceva un altro effetto. La verità è che esiste una coltre di pudore e di timore, forse di vergogna, a coprire le vicende come la nostra: non si dice, non si chiede, non ci si confronta, ci si sussurra qualcosa, ci si dispiace a distanza, ma nessuno che parli (me compresa, fino a oggi), come se si trattasse di un difetto di produzione collettivo, che la società preferisce tacere. Questo genera danni incalcolabili sull’umore di chi vive questa difficoltà.
C’è una legittima battaglia da combattere per chi rivendica il diritto inviolabile a non volere figli. Ma volevo che ci fosse anche una voce libera, anzi liberata da preconcetti culturali, anche per chi i figli li vuole moltissimo, ma deve combattere per averli, e ha bisogno di sapere dove cercare le armi.
E allora eccole qui le parole che per mesi ho tenuto in canna.
Sono prima di tutto per le donne: tenaci, disposte a visite invasive, a cure che rivoltano l’umore, a farsi sondare continuamente un corpo che non dà loro ciò che vogliono. Le vedevo affaccendarsi con le cartelline in braccio, e scoppiare in lacrime, e fare camerata in attesa del proprio turno: quante ne ho osservate e con quante di loro ho riso per vincere la mia paura. A queste creature e ai loro corpi vincibili offro le mie parole. Ma forse ancora di più le offro a quelle che non ho visto, a quelle che stanno in silenzio e passano la notte a cercare notizie in rete, come facevo io. A loro vorrei dire non vi scoraggiate, informatevi, siamo in tanti, una strada c’è, è dura ma è percorribile, avrete forza sufficiente, esiste la scienza, ci sono professionisti capacissimi, non c’è nulla di cui vergognarsi.
Non con minore commozione penso agli uomini. Il Covid ha aumentato la distanza tra i sessi, così, mentre le ragazze erano in attesa in una parte più interna dell’ambulatorio, decine di ragazzi restavano fuori, nell’unica sala riservata agli accompagnatori. Mi facevano tenerezza, sempre più goffi e più imbranati delle loro compagne, ma non meno caparbi e sofferenti. Sulle loro spalle sta l’atavica responsabilità della conservazione della specie, e loro per primi non sanno farsi sconti se non possono adempiere a questo compito. Per di più a loro il mistero della procreazione, anche quando assistita medicalmente, resta sempre un poco più oscuro. Dovevano limitarsi a consegnare, rossi in volto, un vasetto in accettazione, e poi aspettare, soli con il loro umore, dietro una porta chiusa. Appollaiati su sedie di plastica, sgualciti, ripiegati sui cellulari, li ho visti lavorare, rispondere alle mail, fare telefonate, affettare frutta sullo smartphone, fissare semplicemente il vuoto. Ne ho visti tanti litigare, ma nessuno se n’è mai andato.
Il pick up di ovociti
Hanno fissato il mio pick up di ovociti una mattina di Novembre. Sono entrata in sala operatoria con una flebo attaccata, una bizzarra vestaglietta di carta allacciata dietro che mi lasciava scoperto il sedere, un sacco di timore. Non avevo paura del dolore – mi avrebbero sedata – ma sapevo di essere in un momento delicatissimo della mia esistenza e questo sì, mi metteva in uno stato di agitazione.
Mentre un’infermiera mi aiutava a salire sul lettino, si è aperta una finestra nella parete di fronte, una signora di mezza età, con un camice e una cuffietta si è affacciata e mi ha sorriso: “Buongiorno, signora Parenza, sono la biologa responsabile del Laboratorio di questo Centro. Una volta prelevati, i suoi ovociti mi verranno consegnati tramite questo passaggio, perché vengano congelati in sicurezza, senza che lascino mai la sala operatoria. Non abbia timore, signora Parenza, e si fidi di noi. D’ora in avanti noi siamo i vostri organi e siamo al lavoro per voi”.
Ora. Ero stata sedata, quindi potrei aver registrato queste parole col filtro allucinogeno dell’anestetico, ma quella dottoressa ha scoccato l’unica freccia che mi ha trafitta al cuore, ha fatto breccia nel punto più fragile, il solo che avevo tenuto al riparo fino a quel momento. Avrò cura di voi, mi stava dicendo, perché lo so dove si annida il dolore più profondo che entrambi provate, perché capisco quanto fa male stare in un corpo che arranca e fallisce, mentre tutti intorno corrono. Avrò cura di voi, perché non voglio che odiate i vostri corpi, anzi, voglio aiutarli, voglio che sappiate perdonarli. Avrò cura di voi, perché questo fa la scienza, questo è l’essere umano quando dà il meglio di sé: quando non pretende di domare, ma mette la propria intelligenza al servizio di una causa più grande, per aggiustare il tiro di quella forza primordiale, indocile, e sorprendentemente imperfetta che chiamiamo natura.
È stato come dare le stampelle a uno che zoppica, è stato come ricevere un bacio su una ferita infiammata.
Non sono riuscita a dire niente, credo che una lacrima mi sia scesa lungo la guancia. Quello che ricordo dopo è solo il viso di un anestesista, che si è affacciato quando ormai ero distesa.
“Qual è il suo cocktail preferito, signora Parenza?”
“Gin tonic” – (questa era facile, la sapevo).
“Bene, ecco in arrivo il suo Gin tonic”.
Dopo, il buio.
Bollicina
Hanno prelevato un buon numero di ovociti, e nei giorni successivi, li hanno messi a contatto con gli spermatozoi di King G.. Ci faceva molto ridere l’idea, ci domandavamo quale fosse la procedura, se li avessero lasciati soli nel loro vetrino ben arredato, sotto luci soffuse, ci siamo augurati che la musica di sottofondo fosse decente. Intrattenendoci con queste idiozie abbiamo fatto passare più rapidamente i giorni. Dopo una settimana ci hanno detto che si erano formati ben tre embrioni: era un buon numero, abbiamo capito di essere stati fortunati rispetto alla media.
“Secondo te dovremmo andare a trovarli?” anche questo ci faceva ridere, l’immagine di noi con un mazzetto di fiori, come si fa visita negli ospedali, davanti a un freezer di laboratorio.
Sono poi passati altri due mesi, perché c’era Natale di mezzo, prima che arrivasse il nostro turno, prima, cioè, che mi chiamassero perché tornassi in sala operatoria a fare la seconda parte dell’operazione, ovvero il Transfer dell’embrione nel mio utero. Sono tornata in Clinica una mattina di febbraio, di nuovo con la mia vestaglietta culodifuori, di nuovo su quel lettino, di nuovo piena di timore. Oltre alle ginecologhe in sala c’era la stessa biologa affacciata alla finestra. “Guardi il suo embrione, signora” mi hanno detto allegre, indicandomi un monitor. Sotto l’occhio di un microscopio collegato a una telecamera, su un vetrino, c’era un po’ di liquido e in mezzo: una bollicina. Rotonda, perfetta e fragile come un prodigio. Bellissima.
L’ho guardata e mi è dispiaciuto che King G. non fosse con me, mannaggia al Covid.
Epilogo. La morale di una favola goffa
Qui sta l’epilogo. Qui adagio con cautela quella che vorrei fosse la morale di questa goffa favola.
Un’ora dopo l’impianto, in piedi e rivestita, sono stata accolta dal medico, insieme a King G.
“E adesso che cosa succede?” ho chiesto. Mi sentivo minuscola, come se la scrivania, le sedie, i fogli, la dottoressa, tutto di fronte a me fosse enorme e incombesse su di noi. “Adesso aspettiamo, e vediamo se l’embrione si impianta. Ora è nel suo corpo, signora: cercherà calore, energia e nutrimento”. Se c’è un’espressione che ho sempre detestato (dopo “un bel applauso”) è: “miracolo della vita”. La trovo insopportabile, retorica, senza un significato intelligibile. Ma che diavolo significa? Potete immaginare quanta altra insofferenza posso aver maturato per questa espressione nei tre anni di questo gioco dell’oca. Ma la dottoressa non ha vaneggiato di miracoli, nel suo bel camice bianco ha usato tre parole della scienza, precise, fisiche, tangibili: “Cercherà calore, energia, nutrimento”. Eccola, dunque, la formula di quello che una vita in potenza va cercando. Calore. Energia. Nutrimento. Non parole del mondo di là, che chissà se c’è e dov’è, ma parole del mondo di qua, della realtà a ostacoli che ci tocca a sorte, l’unica che abbiamo a disposizione. Eppure, più me le ripeto come un mantra, e più penso che in realtà sono parole devote, sono parole di fede, perlomeno quella che riesco a capire. Che cosa sarà mai dio, quando germogliano i fiori o si perdona un amico? Calore. Energia. Nutrimento.
In queste tre parole sta la morale di questa favola, che non ha un lieto fine, se per lieto fine s’intende necessariamente una nascita: la realtà è più crudele, il percorso non sempre funziona e bisogna percorrerlo con questa consapevolezza. Ma che funzioni o meno, che un figlio alla fine arrivi o meno in una coppia, attraversare questa difficoltà ha senso comunque. Io il senso l’ho trovato quando ho scoperto meraviglie inattese nella mia relazione, che in questi tre anni si è saldata, fortificata, alleata per un obiettivo comune, ha sostenuto i crolli dell’altro, ha consolato, ha sdrammatizzato. Il senso l’ho trovato dividendo sempre questo dolore in due parti uguali, ché non è mai il difetto di uno, ma un ostacolo molto alto che si salta solo uno sulle spalle dell’altro. Che cosa abbiamo fatto, in fondo? Ci siamo scambiati calore, energia, nutrimento. Ci siamo tenuti in vita.
Andate allora cercando tutto ciò che intorno a voi produce calore, energia, nutrimento. Così sarete vivi, e non sarà un miracolo, ma un atto di fede e di scienza, questo sì. La strada che aspetta me e King George è lunga, chissà se Bollicina approderà davvero tra le nostre braccia e chissà come andrà la prossima volta, magari accoglieremo un figlio già nato altrove, e forse anche un cane e un pulcino. Comunque andranno le cose noi ci stiamo attrezzando, tanto ormai abbiamo capito ciò che per noi è famiglia: calore, energia, nutrimento. E scarpe da trekking.
Scusate la predica e andate in pace.
Nota della redazione
Bollicina è nata una mattina di Ottobre. E nonostante il freddo dell'Autunno imminente, conoscerla per la prima volta ci ha scaldato il cuore.