Aspirina può ridurre del 30% i tromboembolismi, ma i pazienti non assumono i farmaci
— di Lino Grossano
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Una malattia che colpisce una persona ogni mille, e che tra i pazienti ricoverati in ospedale è 100 volte ancora più frequente, ha le dimensioni di un’epidemia. E’ il caso del tromboembolismo venoso, patologia in cui un coagulo di sangue blocca del tutto una vena: meno nota di ictus e infarti ma altrettanto devastante. La trombosi venosa profonda e l’embolia polmonare sono due diversi modi con cui il tromboembolismo si manifesta: possono entrambi avere conseguenze molto gravi, portando a disabilità o addirittura alla morte, anche perché le ricadute sono molto frequenti. Eppure ”dosi anche molto basse di aspirina possono ridurre di almeno il 30% questi tromboembolismi secondari”, come spiega Pier Mannuccio Mannucci, direttore scientifico della Fondazione Ca’ Granda Policlinico di Milano. Questo vorrebbe dire che con un semplice gesto è possibile non solo salvare moltissime vite, ma anche ottenere un forte risparmio per il Sistema sanitario nazionale.
L’aspirina, oltre ad essere un antinfiammatorio, è anche un farmaco anti-aggregante: significa che rende il sangue un po’ più fluido, ostacolando quindi il formarsi dei trombi. Finora, però, non era ancora stato dimostrato scientificamente che continuare ad assumere aspirina potesse prevenire le ricadute del tromboembolismo venoso. Ma “uno studio australiano appena pubblicato sul New England Journal of Medicine – spiega Mannucci – ha confermato che basse dosi di aspirina sono un trattamento semplice e molto poco costoso sia per la prevenzione primaria del tromboembolismo venoso, sia nelle ricadute dopo il primo evento trombotico. E’ uno studio fondamentale, perché i pazienti che vanno incontro a tromboembolismo assumono da subito un trattamento con farmaci antagonisti della vitamina K per favorire la fluidificazione del sangue, ma dopo 3-6 mesi interrompono la terapia a causa degli effetti collaterali, come il rischio di emorragie“. Questa interruzione delle cure ha conseguenze molto serie: entro 2 anni dal primo evento il 20% dei pazienti va incontro a una ricaduta; lo stesso accade per il 30% entro i 5 anni, e per il 40% entro i 10 anni. Questo significa che, dopo i primi 3-6 mesi di terapia farmacologica ‘protettiva’, i pazienti non assumono più alcun farmaco per impedire un nuovo tromboembolismo venoso, anche se questo evento è molto probabile.
Lo stesso Policlinico ha contribuito a dimostrare l’efficacia protettiva dell’aspirina con lo studio WARFASA, pubblicato lo scorso giugno sul New England Journal of Medicine e guidato da Cecilia Becattini e Giancarlo Agnelli dell’Università di Perugia, a cui ha partecipato anche il Centro emofilia e trombosi della Fondazione Ca’ Granda. La conclusione dei ricercatori è semplice: “L’aspirina, quando somministrata in seguito a un trattamento anti-coagulante nei pazienti che hanno avuto una trombosi venosa, è efficace nel prevenire le ricadute, e non porta a nessun aumento di rischio per gravi sanguinamenti. La terapia con aspirina, quindi, è una potenziale alternativa per estendere la terapia anticoagulante orale, e quindi prevenire le ricadute”.
“La trombosi venosa – conclude Mannucci – è la terza malattia cardiovascolare per gravità, dopo ictus e infarti. Visto il numero di persone che sono colpite dalle patologie da trombosi, questo studio ha messo a segno un risultato storico: poter estendere gli effetti preventivi della terapia anticoagulante senza aumentare i rischi di sanguinamento potrà avere un grosso impatto sulla gestione di queste malattie, a tutto beneficio dei pazienti. Non ultimo, l’aspirina è molto economica, ed è una terapia sicura: la conosciamo da cento anni, e non costringe il paziente ad alcun controllo di laboratorio”.