notizia
27/05 2016
Attualità

Emofilia, la ricerca può cambiare la storia della malattia e l’efficacia delle cure

— di Lino Grossano

L’emofilia è una malattia che ha cambiato la storia dell’uomo: ne era colpito ad esempio il principe Leopoldo, figlio della regina Vittoria d’Inghilterra, e arrivò a toccare anche gli eredi al trono di Russia e Spagna. Da tempo, però, è l’uomo ad aver cambiato la storia dell’emofilia: se ancora nel 1960 l’aspettativa di vita degli emofilici non superava i 30 anni, ad oggi le cose sono cambiate parecchio, e in meglio. La malattia non è ancora stata sconfitta, ma i farmaci e le biotecnologie hanno migliorato la qualità di vita dei pazienti in modo sensibile, tanto che oggi hanno un’aspettativa di vita normale. E anche se la sfida con la malattia non è ancora stata completamente vinta, le premesse ci sono già tutte: gli ultimi 30 anni di ricerca hanno cambiato davvero la storia della patologia, soprattutto quella italiana che è ai vertici del mondo; e le scoperte più recenti, come i fattori ‘a lunga durata’ e la terapia genica, ne cambieranno anche il futuro.

Uno degli ultimi risultati della ricerca arriva con lo studio SIPPET, e potrebbe consentire non solo di tarare meglio la terapia a misura di paziente, ma anche di aprire la strada verso un risparmio per il sistema sanitario. Lo studio ha come coordinatori e primi autori Flora Peyvandi, responsabile del Centro Emofilia e Trombosi ‘Angelo Bianchi Bonomi’ del Policlinico di Milano, e Pier Mannuccio Mannucci, già direttore scientifico della struttura. Con loro hanno partecipato alcuni centri italiani (Università degli Studi di Milano, Azienda Ospedaliera di Padova, Policlinico Umberto I di Roma) insieme ad esperti di ospedali e università di tutto il mondo (Egitto, India, Iran, USA, Messico, Sud Africa, Spagna, Brasile, Austria, Arabia Saudita, Cile, Turchia, Argentina, Olanda). La ricerca è stata supportata, tra gli altri, dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) e dal Ministero della Salute italiano.
I ricercatori hanno studiato oltre 250 pazienti (un numero alto, data la rarità della malattia) di 14 Paesi del mondo, che non erano mai stati trattati prima con un fattore di coagulazione, e li hanno seguiti per tre anni. Lo studio, pubblicato su Blood e sul New England Journal of Medicine, ha messo a confronto l’impatto che avevano su questi pazienti i fattori di coagulazione ricavati dal plasma umano, oppure quelli creati in laboratorio con le biotecnologie. E si è scoperto in particolare che il farmaco biotecnologico è il più immunogenico dei due, ovvero scatena di più la reazione del sistema immunitario del paziente, almeno nei primi mesi di terapia.

Come per i pazienti con diabete, che hanno un costante bisogno di insulina, le persone con emofilia A hanno bisogno di iniezioni del Fattore VIII della coagulazione; in commercio ne esistono di due tipi, il plasma-derivato (estratto cioé dal sangue di una persona sana) e il ricombinante (che ricrea il Fattore VIII in laboratorio). Negli ultimi 30 anni le cure si sono orientate molto più sui prodotti ricombinanti, a causa dei gravi problemi che ci sono stati in passato con le trasfusioni e la trasmissione di patologie come l’epatite C e l’AIDS, anche se dagli anni Novanta in poi questo problema è stato superato. Gli studi precedenti non sono riusciti a dare risultati conclusivi; solo ora, con lo studio SIPPET, si è riusciti a chiarire in modo evidente che i pazienti curati con il fattore ricombinante hanno una frequenza quasi doppia (+87%) di sviluppare anticorpi contro il Fattore VIII, rendendo quindi inefficace la terapia.

“Si tratta del primo lavoro scientifico randomizzato, che confronta cioé nel modo più obiettivo possibile la terapia con prodotti ricombinanti o plasma-derivati – commentano gli autori – parliamo di bimbi con meno di 6 anni, ma che in media hanno 14 mesi di vita: i risultati dello studio hanno grandi implicazioni nella scelta di quale tipo di prodotto vada somministrato ai pazienti, dato che lo sviluppo degli anticorpi è uno dei più grossi problemi nella gestione dell’emofilia A”.
Di solito, aggiungono gli esperti, “questa ‘resistenza’ alla terapia si sviluppa entro le prime 20 iniezioni con il fattore VIII: questo significa che se iniziassimo le terapie nei bambini con emofilia con il prodotto plasma-derivato invece che con il fattore ricombinante, potremmo dimezzare la resistenza alla terapia e garantire a molte più persone con emofilia una cura adeguata”. Peraltro i prodotti plasma-derivati sono meno costosi di quelli ricombinanti: questo porterebbe non solo ad un consistente risparmio per i sistemi sanitari, ma permetterebbe anche un migliore accesso alle cure nei Paesi più svantaggiati dal punto di vista economico. Va però sottolineato che il fattore ricombinante si può produrre sempre, mentre quello plasma-derivato ha bisogno di donazioni di sangue, e quindi si può ricavare in quantità inferiori. “Per questo – dicono gli esperti del Policlinico – avremo sempre bisogno di entrambi i tipi di fattore VIII”.

 

COS’E’ L’EMOFILIA
  Chi soffre di questa patologia ha un difetto della coagulazione del sangue: il suo organismo non riesce a controllare il sanguinamento, e anche una minima ferita può diventare una grave emorragia. I pazienti devono sottoporsi a cure costanti, sin dalla nascita: per trattarli esistono farmaci ricavati dal plasma umano, oppure creati in laboratorio con le biotecnologie. L’emofilia è una malattia genetica rara che colpisce ogni anno in Europa un nuovo nato ogni 5mila. I pazienti devono sottoporsi a iniezioni periodiche, anche fino a 120 l’anno, per reintegrare quei fattori di coagulazione del sangue che non riescono a produrre da soli. Ma le terapie non sono prive di problemi: circa il 30% dei malati con emofilia A (il tipo più frequente, che colpisce l’85% di tutti gli emofilici) sviluppa anticorpi contro questo fattore di coagulazione, rendendo le terapie inefficaci.

L’emofilia è in realtà un insieme di malattie, nelle quali i pazienti sono privi del tutto o in parte di una delle proteine responsabili della coagulazione del sangue. Quella di tipo A, la più comune, è dovuta all’assenza o al deficit del fattore VIII della coagulazione, mentre l’emofilia B è dovuta alla carenza del fattore IX. Questo significa che anche la più piccola ferita, sia esterna che interna, non può rimarginarsi e dà luogo ad emorragie. “Negli ultimi 30 anni – concludono gli esperti – la ricerca sull’emofilia ha fatto progressi enormi, e non c’è dubbio che al momento, tra le più frequenti malattie nelle quali è implicato un solo gene, abbia a disposizione le cure più efficaci e sicure. Ma per mantenere alto il livello delle cure sono fondamentali due cose: la collaborazione internazionale tra i ricercatori, e il tenere alto l’interesse e le competenze in questo settore. I ricercatori italiani hanno tutte le carte in regola perché si arrivi un giorno a battere questa malattia una volta per tutte”.