notizia
08/05 2018
Salute

Mamme di latte

— di Alessandra Farina

Lo confesso. Non sono diventata donatrice per spirito di solidarietà, ma perché non sapevo più dove mettere il latte in frigo.
Scherzo naturalmente. Di vero c’è solo che, dopo un avvio stentato, la mia produzione di latte materno è cresciuta a dismisura. Una bella rivincita per una che sembrava destinata a non farcela. Come moltissime donne, infatti, anch’io non ho avuto vita facile con l’allattamento, soprattutto all’inizio. Altro che esperienza idillica! Allattare – o meglio, provare ad allattare – per me si è rivelato un incubo. Appena è nata mia figlia me l’hanno attaccata al seno e, giuro, non ho mai provato un dolore così forte. Ancora oggi il ricordo più brutto dei giorni dopo il parto sono quelle prime poppate. In poco tempo ho avuto di tutto: ragadi, ingorghi, mastiti. Se cercavo di allattare, dovevo sdraiarmi sul letto. Se resistevo, non era per più di dieci minuti. Il pensiero di doverlo fare più volte al giorno mi dava la nausea. Stavo quindi per gettare la spugna, quando una delle ostetriche dell’ambulatorio per il Puerperio della Clinica Mangiagalli mi ha suggerito di provare il tiralatte: “Signora, mi ha detto lapidaria, è la sua ultima possibilità”. Ebbene, seppur poco gradevole, l’oggetto in questione era per me più sopportabile dei morsi di mia figlia. Tra la prospettiva di interrompere l’allattamento e quella di continuare con i penosi tentativi di attaccare la bimba al seno mi pareva comunque il male minore.

Iniziai così a cimentarmi. A poco a poco mi abituai al fastidio e lentamente il latte iniziò ad arrivare. E ad aumentare. Nel giro di quattro settimane smisi con la ‘giunta’ artificiale; nel giro di un altro mese raggiunsi un livello di produzione tale per cui non mi bastavano più i barattoli dove mettere il latte. Nonostante la richiesta della bambina aumentasse, ne avevo sempre più di quanto servisse. Una cosa impensabile rispetto ai primi tempi! Ero così grata verso le dottoresse che mi avevano aiutato a non mollare e verso le ostetriche che mi avevano insegnato “i trucchi del mestiere” che mi dissi che dovevo in qualche modo restituire quanto di buono avevo ricevuto e quanto anche la mia bambina, attraverso di me, stava ricevendo. Così quando un giorno notai un manifesto della Banca del latte in uno dei corridoi della Mangiagalli, non ho avuto dubbi. Sarebbe stato il mio modo di dimostrare gratitudine verso chi aveva contribuito a trasformare un allattamento disastroso in un allattamento di successo.

Diventare donatrice è stato semplice. Ho fatto un colloquio, ho compilato un questionario sulla mia salute e ho fatto le analisi del sangue. Dopo qualche giorno, nella vita mia e di mia figlia è arrivata Antonella. Non solo un’ostetrica ma anche una preziosa consulente su tutto ciò che riguardava la salute della bambina: alimentazione, svezzamento, nanna, vaccinazioni. Puntuale e sorridente, Antonella arrivava a casa mia a bordo della sua Apecar. Con il pc portatile verificava lo stato di conservazione del latte attraverso un microchip posizionato nel freezer. Ritirava i vasetti pieni e mi riforniva di quelli vuoti, poi mi dava appuntamento alla volta successiva. Una vera macchina da guerra! Sono andata avanti così diversi mesi, finché, poco prima che mia figlia compisse un anno, ho deciso di terminare l’allattamento. Ora Vittoria ha 21 mesi. Posso orgogliosamente affermare che è in gran forma e non ha mai avuto nessun tipo di malanno. Il merito di ciò, mi piace pensare, è anche un po’ del mio latte. Quello stesso latte che spero abbia fatto del bene a molti altri bambini.

Tratto da "Blister 02. Storie dal Policlinico per curare l'attesa".