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10/10 2019
Cultura Salute

Il genio e la malattia: van Gogh, la porfiria, l'arte

— di Francesca Granata, ricercatrice della Medicina Generale

La “notte stellata” di Vincent van Gogh è uno dei suoi dipinti più famosi al mondo, così come è celebre la sua follia al confine con la genialità. L’unione di queste due componenti lo portò a dipingere oltre 900 opere, concentrate soprattutto negli ultimi anni della sua vita. La sua arte, oltre ad entrare nel cuore delle persone, è arrivata sulle scrivanie di medici e scienziati, che l'hanno studiata davvero a fondo. Van Gogh è, per questo, uno dei pazienti con il più ampio numero di diagnosi a distanza di 129 anni dalla sua scomparsa. Tante delle ipotesi formulate nel tempo sono poi state scartate fino a farne emergere solo alcune, tra le quali svetta il nome della 'porfiria acuta intermittente'. Si tratta di una malattia metabolica genetica e rara che affligge il fisico e la mente: ai tempi era sconosciuta, ed è una sfida diagnostica anche per il medico odierno, data la varietà dei sintomi che dipendono da innumerevoli fattori genetici ed ambientali.

   Ma come hanno fatto i clinici ad avere questa intuizione, senza avere un paziente da visitare?

Inizialmente, affiancati da psicologi, hanno 'visitato' le sue tele, analizzando l’intensità dei suoi tratti, stracolmi di colore e sole ma carichi di frenesia, che aumenta soprattutto nelle opere degli ultimi anni. In “campo di grano con volo di corvi” si osservano grosse pennellate e margini mal definiti se comparati ai quadri antecedenti al 1886, anno della comparsa dei primi malesseri. Una data ricostruita associando l’arte alle sue parole raccolte nelle oltre ottocento lettere scambiate con l’amato fratello Théo. Confidenze che se lette con occhio clinico si trasformano in sintomi: "Una sensazione di debolezza in tutto il corpo e spossatezza", queste le prime descrizioni, termini che negli ultimi anni della sua vita si aggravano trasformandosi in "esausto, irrequieto, ansioso, debole, profondamente confuso". Inoltre, il pittore descrive dolori allo stomaco, febbre a ridosso delle crisi, le quali sfociavano anche in allucinazioni e perdita di lucidità.

L’attacco di porfiria oggi è descritto proprio così nella letteratura scientifica, una reazione scatenata dall’accumulo nell'organismo di sostanze tossiche per i neuroni ed aggravate da alcuni fattori: farmaci, diete ipocaloriche, alcool, fumo di sigaretta e droghe, molti dei quali sono stati a tutti gli effetti dei fattori 'aggravanti' della malattia in van Gogh. In “autoritratto con cappello in feltro grigio” del 1886 il pittore appare emaciato, nelle lettere di quel periodo ammette di non mangiare per comprarsi i colori, eppure non si nega alcool e sigarette. Nell’ultimo periodo si trasferisce ad Arles, nel sud della Francia, alla ricerca di un po’ di stabilità. Qui inizia a dipingere intensamente, trascurandosi sempre di più, e intanto aumentano le crisi. Ai tempi non esistevano centri specializzati come quello del Policlinico di Milano, dove i pazienti ricevono cure e assistenza. Esistevano però le petizioni: i cittadini raccolsero 80 firme per farlo curare in manicomio, dove le uniche terapie furono dei bagni e del cibo. Questo ristabilì almeno un poco la sua salute fisica, ma lo stato psichico era ormai troppo segnato dagli innumerevoli attacchi della sua malattia.

Le persone che soffrono di porfiria hanno sintomi latenti ma costanti nell’arco di tutta la vita. Eliminando i fattori che scatenano la patologia, e controllando i livelli nel sangue delle molecole dannose per i neuroni si evitano gli attacchi acuti, che possono essere anche fatali. Non possiamo ovviamente saperlo, però forse van Gogh si sarebbe potuto salvare se non fosse stato considerato un pazzo, ma semplicemente un ammalato.

 

Le porfirie sono particolari malattie del sangue causate da alterazioni del normale processo di produzione dell’emoglobina. Sono caratterizzate dall’accumulo nella cute o negli organi di particolari proteine, le porfirine, che danno il nome a questo gruppo di malattie. In Policlinico sono studiate da un gruppo di ricercatori guidati da Itala Marina Baldini, direttore dell’Unità Operativa di Medicina Generale.

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Tratto da Blister n.07, il magazine del Policlinico per curare l'attesa