COVID19. La terapia dei fili
— di Marina Lauro, operatrice socio-sanitaria
Paziente: “Signorina, il filo...”
Operatrice: “Quale filo, signora? Stia tranquilla, la flebo va bene...”
P: “Il filo, il filo per favore...”
O: “Cara, il filo del campanello è qui, accanto a lei, alla sua sinistra, lo sente? Non si preoccupi. Se ha bisogno, ci suona...”
P: “Mi attacchi il filo per favore...”
O: “Faccia un bel respiro, signora, e mi spieghi bene che filo vuole che le attacchi”
P: “Il filo del cellulare, la prego, devo chiamare mio marito... è scarico”.
Caro Ernesto, sono un’operatrice del Policlinico, dove è stata ricoverata sua moglie. Le scrivo io con il suo telefono perché non riesce ancora bene a digitare sui tasti... I medici la chiameranno a breve, ma lei voleva farle sapere che sta bene e che le manca tanto. Oggi respira un po’ meglio. Le metto il telefono in carica così più tardi potrà chiamarla.
Paziente: “Dove sono? Perché i miei figli non vengono a trovarmi?”
Operatrice: “Si trova in ospedale, signore, purtroppo non possono entrare visitatori perché c’è una brutta influenza contagiosa... Ma i suoi figli ci hanno chiesto di dirle che le vogliono bene e di usare il cellulare, così possono chiamarla. Posso aiutarla io... le va se le insegno a videochiamare? Mettiamolo sotto carica”.
E’ così che, con una cuffia troppo stretta per la mia testa e il naso e le orecchie doloranti per i lacci della mascherina, ho cercato di divincolarmi tra telefoni scarichi, richieste di leggere sms, qualche lettera, corsi intensivi e lampo per imparare ad utilizzare le chat. Non ero preparata a questo. Io che di fili ho sempre conosciuto soltanto quello della flebo, quello per comandare i movimenti del letto, quello del campanello per chiedere assistenza... mi sono ritrovata all'improvviso in un grande mondo che questa emergenza ci ha forzatamente messo davanti agli occhi: quello della comunicazione.
Dare notizie, ricevere notizie.
I pazienti ricoverati nei reparti dedicati a Covid-19 non ci chiedevano acqua, né di aiuto per mettersi seduti, nemmeno di parlare con i medici. Questa volta il loro bisogno primario era quello di comunicare con i loro cari.
Parlarsi, sentirsi, vedersi con qualche foto, fare una videochiamata... e a volte anche doversi salutare per l’ultima volta.
Quella parola, così tanto dolorosa, così umana con cui questo virus ci ha fatto entrare in contatto: il commiato.
Commiato (ant. comiato) s. m. [lat. commeatus -us, der. di commeare «avviarsi»]. – 1. a. Permesso di partire, licenza, congedo: chiedere c.; dare c., licenziare, consentire a uno di andarsene; prendere c., congedarsi da qualcuno. b. La separazione stessa, e il modo, i saluti con cui ci si lascia: al momento del c.; fu un triste commiato.
“Il saluto con cui ci si lascia”. Ed è questo a cui siamo stati chiamati questa volta. Ad aiutare i nostri pazienti a salutare i propri cari, oppure a confortarli nel momento in cui questo commiato non è più possibile.
Non potrò dimenticare facilmente il signor F., ricoverato da noi per parecchie settimane, a cui era stato annunciato dai medici che la moglie era mancata in un altro ospedale per il coronavirus. La mattina della sue dimissioni l’ho assistito io, e il suo dolore mi rimbomba ancora nel cuore.
“Non ho potuto salutarla neanche con un ciao... non posso vederla... come faccio? Non posso non dirle per l’ultima volta che la amavo tanto”.
Il signor F. non voleva andarsene dal reparto. Non era pronto ad affrontare la vita senza la moglie, senza aver avuto occasione di salutarla.
Davanti a questo dolore, davanti a questa sofferenza ci rendiamo conto di quanto l'assistenza sia importante, di quanto sia importante l’accogliere, e soprattutto di quanto questa pandemia ci abbia portato via: un po’ della nostra umanità.
Perché morire così, o lasciare che un nostro caro muoia così, è davvero straziante.
Ho abbracciato forte il paziente, gli ho detto che non era giusto, ma che il vero segreto per sconfiggere questa guerra è guardare un passo avanti, stringere il cuore, e sapere che riconquisteremo tutto quello che ci ha tolto. Tutto.
Prendere atto di questo bisogno di comunicare e di non sentirsi soli, un bisogno che è insito in ognuno di noi, mi ha permesso di lavorare in quei reparti Covid con una consapevolezza diversa.