#RICERCA. Malattie autoimmuni epatiche, il Policlinico di Milano protagonista di tre importanti studi internazionali
— di Redazione
Quando si parla di malattie del fegato il pensiero va subito all’epatite virale o al tumore. Esistono però altre patologie che lo possono colpire. Ne sono un esempio le malattie autoimmuni, come l’epatite autoimmune (EA) e la colangite biliare primitiva (CBP): condizioni causate da un attacco anticorpale e cellulare, sviluppato dal sistema immunitario che, spesso in assenza di fattori scatenanti noti, improvvisamente impazzisce attaccando le cellule sane dell’organismo, come normalmente farebbe con virus e batteri. In particolare, l’EA colpisce le cellule epatiche - gli epatociti, e provoca un'infiammazione cronica progressiva fino alla cirrosi mentre la CBP coinvolge i duttuli biliari – i biliociti, e causa la progressiva necrosi e scomparsa fino a sviluppare una cirrosi detta biliare. Si tratta di epatopatie rare che “in assenza” di diagnosi tempestiva e di terapia specifica possono evolvere ed avere indicazione a sostituire l’organo mediante il trapianto di fegato. La terapia efficace esiste per queste malattie da tantissimi anni e rappresenta ancora oggi la base di partenza della cura, e rispettivamente: steroide ed Azatioprina per l’EA ed acido ursodesossicolico per la CBP. In caso si debba arrivare al trapianto di fegato, intervento che presenta un’ottima sopravvivenza (>90% ad un anno), bisogna però sottolineare che sia EA che CBP potrebbero ripresentarsi nel fegato nuovo ed il rischio di recidiva nel nuovo fegato è ancora una volta legato allo stesso meccanismo patogenetico e cioè il sistema immunitario del paziente agirà contro il nuovo fegato provocandone il medesimo danno. Il principale meccanismo che di fatto argina in parte questo attacco è l’utilizzo dei farmaci immuno-soppressori antirigetto (come tacrolimus, ciclosporina, micofenolato e altri) che devono essere particolarmente potenziati nel caso della EA ed attentamente modulati nella CBP.
Risultati importanti ottenuti nella cura e prevenzione della ricorrenza di EA e CBP sono stati pubblicati al livello internazionale anche grazie al contributo del gruppo della nostra Epatologia dei Trapianti. Il team dei ricercatori è guidato da Maria Francesca Donato e fa parte del nostro Centro di Epatologia “Migliavacca”, uno dei principali centri epatologici italiani per la diagnosi e lo studio delle malattie del fegato e delle vie biliari, che collabora con l’equipe della Chirurgia Generale - Trapianti di Fegato da più di 20 anni. Infatti, dal 2019 ad oggi, i ricercatori della nostra Epatologia dei Trapianti hanno partecipato alla realizzazione di 3 grossi studi multicentrici condividendo la loro esperienza all’interno di un grande lavoro di squadra internazionale. Lo sforzo dei ricercatori dell’epatologia trapiantologica è oggi volto a identificare eventuali fattori predittivi di recidiva e sopravvivenza a lungo-termine nel setting del trapianto per EA e CBP ed alla prevenzione della recidiva. Questi studi internazionali sono stati svolti con un coinvolgimento di 785 pazienti trapiantati per CBP e 736 trapiantati per EA. La recidiva di CBP viene riscontrata in 1/3 dei pazienti trapiantati e si presenta spesso in assenza di sintomi tipici e in gran parte con tests epatici nella norma e solo la biopsia epatica permette di fare diagnosi di recidiva. La recidiva condiziona la prognosi del trapianto a lungo termine. L’età giovanile al trapianto (che equivale ad avere una malattia più aggressiva) e l’utilizzo di alcuni immunosoppressori (tacrolimus ed MMF), oltre al riscontro di elevati di test ematici di colestasi il primo anno post-trapianto, sono associati a maggior rischio di malattia ricorrente nel nuovo fegato. Sempre in tema di prevenzione di CBP ricorrente, un grande avanzamento delle conoscenze si è ottenuto da uno studio multicentrico internazionale che, per la prima volta, ha dimostrato che l’utilizzo dell’acido ursodesossicolico “long-term” è efficace nel post-trapianto riducendo significativamente la recidiva di malattia.
“Sapevamo già che le persone che vengono trapiantate per EA hanno più facilmente una malattia che ricorre post-trapianto se non si pone attenzione all’immunosoppressione ma non conoscevamo quali fossero gli altri fattori associati ad un maggior rischio di recidivare ed è quanto emerge dallo studio multicentrico su 736 pazienti trapiantati per EA laddove: avere un’età inferiore a 42 anni, e livelli elevati di immunoglobuline G al trapianto si associa ad una prognosi sfavorevole in termini di recidiva di malattia e sopravvivenza. A questo si aggiunge un ruolo negativo del mismatch per sesso tra donatore e ricevente - quando il donatore è una donna e il ricevente un uomo, o viceversa - e l’uso di micofenolato come immunosopressore” spiega Maria Francesca Donato, uno dei principali investigatori degli studi. “Risultati importanti, ottenuti grazie al contributo di numerosi centri internazionali in un ampio arco temporale, che possono aiutare noi epatologi a identificare i pazienti ad alto rischio di sviluppare una malattia epatica che si può ripresentare. Un passo fondamentale sarebbe quello di riconoscerli al momento del trapianto per identificare coloro che per caratteristiche clinico-epidemiologiche necessiteranno di un monitoraggio post-intervento più stretto e l’applicazione di strategie di immunosoppressione personalizzate ma soprattutto ottimizzando il match donatore-ricevente più idoneo almeno nei casi classificati come ad alto rischio di recidiva e ridotta sopravvivenza”.
Long-term impact of preventive UDCA therapy after transplantation for primary biliary cholangitis.
Factors Associated With Recurrence of Primary Biliary Cholangitis After Liver Transplantation and Effects on Graft and Patient Survival.