#RICERCA. Epatite Delta: ora un farmaco capace di cambiare la storia di una malattia
— di Ilaria Coro
In medicina ci sono eventi che dimostrano come, grazie alla ricerca, sia possibile cambiare la storia di una malattia. Ne è un esempio la scoperta del farmaco bulevirtide: prima e unica terapia specifica per l’epatite Delta, la forma più aggressiva tra le epatiti croniche causate da virus, che può provocare danni al fegato così gravi da richiederne il trapianto. Un risultato rivoluzionario, raggiunto con il contributo del team della Gastroenterologia ed Epatologia del Policlinico di Milano in molti trial internazionali. Come nel caso dello studio MYR301, i cui dati preliminari sono stati pubblicati sulla rivista scientifica “The New England Journal of Medicine”, che ha contribuito all’approvazione del farmaco, cambiando la vita di migliaia di pazienti.
L’epatite D, chiamata anche Delta, tra le epatiti virali croniche, è la meno conosciuta ma anche la più pericolosa. Si tratta di una malattia rara che colpisce il fegato, capace di comprometterne il funzionamento in poco tempo, e causata da un virus molto particolare. Il virus dell’epatite delta (HDV) è infatti tra i più piccoli del suo genere, così tanto da non essere in grado di infettare le cellule del fegato senza l’aiuto di un altro virus, il “fratello” HBV (il virus dell’epatite B). Quando l’infezione non si risolve spontaneamente, la presenza di entrambi i virus fa aumentare notevolmente l’infiammazione a livello epatico con una rapida progressione verso forme avanzate della malattia che potrebbero richiedere il trapianto dell’organo.
Fino al 2020, l’unica terapia per l'epatite Delta era l'interferone, che permetteva la soppressione virologica solo nel 10% dei casi, con molto effetti collaterali e non indicato per tutti i pazienti. Da qui, l’esigenza di sviluppare un principio attivo specifico per questo virus, in grado di bloccarne l’entrata nelle cellule del fegato e di fermare quindi il danno epatico senza importanti reazioni indesiderate. I dati ottenuti da sperimentazioni internazionali hanno dimostrato che 48 settimane di terapia con un antivirale, chiamato bulevirtide, permettono la riduzione della viremia nel 70% dei pazienti e dei livelli di transaminasi (gli enzimi epatici indicativi del funzionamento del fegato), rientrando nella normalità nel 50% dei casi. Inoltre, gli studi italiani coordinati dal team della Gastroenterologia ed Epatologia del Policlinico di Milano hanno permesso di dimostrare, che questo farmaco è sicuro ed efficace anche in pazienti con cirrosi epatica avanzata cioè con varici esofagee. Ottenuta l’approvazione, prima dall’Agenzia Europea per i Medicinali e da alcune settimane anche dall’Agenzia Italiana del Farmaco, bulevirtide consentirà di migliorare la qualità della vita di milioni di pazienti (solo in Italia si stima che siano circa 5-10 mila) che dal 1977 – anno della scoperta del virus Delta – erano rimasti senza una terapia specifica.
“La disponibilità del primo farmaco mirato contro l’HDV rappresenta un successo della ricerca, ottenuto anche con il contributo del nostro Centro, da sempre impegnato nei trial clinici per individuare nuove terapie in grado di curare le malattie infettive del fegato” spiega Pietro Lampertico, direttore della Gastroenterologia ed Epatologia del nostro Ospedale e professore ordinario di Gastroenterologia dell’Università degli Studi di Milano “Ad esempio, lo studio MYR301 a cui abbiamo partecipato ha permesso di dimostrare l’efficacia, la sicurezza e la dose ottimale di bulevirtide consentendo la sua approvazione anche in Italia. Ora puntiamo a estendere l’uso di bulevirtide anche nei pazienti con stadi avanzati della malattia. Trials clinici e studi di 'real life', sviluppati dal nostro Centro, hanno confermato i buoni risultati, con la riduzione della carica virale, dell’infiammazione e della fibrosi fondamentali per prevenire lo scompenso epatico e l’epatocarcinoma, con un importante aumento della sopravvivenza”.
A Phase 3, Randomized Trial of Bulevirtide in Chronic Hepatitis D
Nella foto Marta Borghi (study coordinator), Elisabetta Degasperi (epatologa ricercatrice), Pietro Lampertico (principal investigator - responsabile dello studio) e Riccardo Perbellini (study coordinator).