Supereroi, come io e te. Il paracadute di una famiglia che affronta un ricovero
— Marina Lauro, operatore socio-sanitario
Vi siete mai chiesti a cosa servono gli ombrelli?
Nella mia mente li accomuno ad un paracadute. A un qualcosa, un oggetto, che ci salva in caso di imprevisto, che ci aiuta ad uscire da una situazione in maniera più semplice. Piccoli, grandi, portatili, colorati, c’è chi lo ha sempre con sé, chi lo perde e lascia ovunque, chi non lo usa addirittura, chi non lo trova mai quando serve, chi lo dimentica in macchina, in treno, in ospedale.
Ed è proprio lì che l’ho incontrato - cara mamma - il tuo ombrello. Stavi entrando in reparto a trovare tuo figlio, che sta affrontando un lungo ricovero, entravi come ultimamente fai tutti i pomeriggi… solo che quel giorno pioveva e guardandomi mi hai chiesto "Marina, dove posso lasciare il mio ombrello? Non vorrei portarlo in stanza, perché è tutto bagnato".
L'ho preso in custodia io, ti ho sorriso, e ti ho vista entrare con la solita sacca piena di cose per tuo figlio.
Ti ho guardata mentre percorrevi quel lungo corridoio e mi sono chiesta cosa poteva contenere quella borsa così pesante, ma anche cosa c’era dentro il tuo cuore per poter affrontare tutto. Esiste una radiografia per vedere l’anima e per le emozioni? Cosa ti sei portata, dentro al petto, per poter affrontare una degenza così lunga?
Cosa fai della tua vita, quando te la trovi completamente diversa da come l’avevi sognata e immaginata? Cosa fai quando sei un genitore e invece di preparare la borsa da calcio, per la scuola, per le ripetizioni, ti trovi a preparare la borsa per l’ospedale?
Che cosa porti nel tuo cuore-valigia?
Il tuo ombrello, capace di ripararti dalle intemperie della pioggia - e forse della vita - ha preso parola e ha iniziato a raccontarmi tutto. Forse non lo sapevate, ma anche gli ombrelli hanno un'anima e parlano. Mi ha elencato tutte le “cose”, oltre a lui, che ti porti dentro come kit di sopravvivenza per genitori. Mi ha confessato che ci sono giorni in cui vorresti una bacchetta magica, giorni in cui il senso di impotenza ti affligge perché non puoi fare niente per cambiare alcune cose che accadono a tuo figlio, a livello medico, di salute. Mi ha raccontato che spesso ti ha riparato dalla pioggia perché ti sei fermata a pregare - per quell’intervento, per quella consulenza - davanti alla madonnina del nostro Ospedale. Ho sorriso, avrei voluto dire a quell’ombrello che a quella madonnina ci vado spesso anche io, e le mamme che si affidano alla fede le riconosco dalla luce dei loro occhi. Mi ha parlato poi della paura che spesso ti assale, per il timore di non aver fatto le scelte giuste, di aver commesso degli errori. Delle tante maschere che sei costretta ad indossare per non far preoccupare tuo figlio, per sentirti forte, per non cedere ai cattivi pensieri.
Mi ha confidato che, anche se una bacchetta magica non esiste, per continuare a sopravvivere ti sei affidata al reparto e alla competenza dei suoi medici, degli infermieri e degli operatori socio sanitari. Dove le tue mani non possono arrivare, hai la speranza e l’ottimismo di credere che altre mani più esperte possano dare a tuo figlio il meglio.
Ed è proprio mentre penso a questo, alla responsabilità che abbiamo per alleggerire questi genitori, che lo vedo arrivare: il papà, il marito di questa mamma. Un uomo alto, imponente, silenzioso. Non mi vede, ma io vedo lui, vedo il suo sguardo che dice mille cose, un turbine di emozioni che spariscono alla curva del reparto, nella stanza 107.
Vi osservo da un paio di settimane, e nella mente so già che lui accarezzerà delicatamente il figlio, una carezza leggera, per poi prendere posto accanto alla mamma. Siete una squadra. Vi vedo insieme, un mix di maschere, di emozioni, di sorrisi e soluzioni.
“E fermeremo il vento come dentro agli uragani
Supereroi come io e te
Se avrai paura allora stringimi le mani…”
canta così Mr. Rain nella sua canzone Supereroi, e mentre guardo questa famiglia che si stringe le mani non posso non pensare che è quel trio a comporre il kit di sopravvivenza: un kit composto da 6 mani e 3 cuori. Vi vedo uscire dalla stanza di vostro figlio, lui resta ancora un po' con noi. Vi guardo e vi restituisco il vostro ombrello parlante, con l’augurio e la speranza che possa continuare a contenere tutti i vostri pensieri. Essere supereroi insieme: forse è questo il segreto. Intanto col pensiero vi ringrazio, per le cose dette e per quelle non dette. Per la vostra testimonianza di famiglia salda e di un collante a prova di intemperie.
Finisco il turno ed esco dal reparto. I vostri figli restano lì, le luci delle stanze sono ancora accese. Cerco il mio ombrello, ci sono ancora due gocce di pioggia… salveranno il mondo dalle nuvole?
Articolo tratto dal magazine Blister, storie dal Policlinico per curare l'attesa