#HIV. Mai abbassare la guardia. Intervista all'infettivologa Alessandra Bandera
— di Ilaria Coro
In Zambia, dove virus e batteri sono ancora la più grande sfida, combattuta spesso solo con l’empatia umana, Alessandra Bandera ha scoperto le malattie infettive. La “medicina degli ultimi”, così come la chiama lei, si è rilevata il trait d'union tra le sue due più grandi passioni: la scienza e l’attenzione verso il prossimo.
In quel momento, da giovane studentessa di Medicina, non sapeva ancora che avrebbe superato ben due pandemie (Aids e Covid-19) grazie alla forza e all'amore per il suo lavoro. E che 25 anni dopo sarebbe diventata direttrice delle Malattie Infettive proprio nell’Ospedale simbolo della lotta a tante pestilenze, che hanno colpito Milano e non solo: una di queste, la peste del 1629, è raccontata con molti particolari nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Casualmente (o forse no…) tra i libri preferiti di Alessandra Bandera c’è proprio un romanzo dove si racconta il lato più privato del celebre scrittore*, che con le vicende di Renzo e Lucia ha descritto l'emblema di tragedie passate e presenti.
Cos’è per lei una tragedia?
Per me è veder morire un paziente a causa di una malattia che si può curare. Come nel caso dell’Hiv. È vero che non si può guarire, ma oggi abbiamo tutte le armi per evitare alle persone di sviluppare l’Aids. Non riuscire ad arrivare in tempo è per me ancora molto difficile da accettare. Spesso queste persone non ricevono una diagnosi, e quindi una terapia, solo perché non hanno mai effettuato uno screening con il test dell’Hiv. L’infezione e il relativo percorso rappresentano ancora per molti uno stigma con un forte impatto dal punto di vista psicologico.
Come mai?
L’Hiv rimane un tabù soprattutto perché se ne parla troppo poco. Alcune persone e persino alcuni medici lo associano ancora solo a chi ha dei comportamenti legati a rapporti sessuali con diversi partner o all’uso di droghe. Ci si sente immuni e quindi non si fa il test. Inoltre, si ha paura che di fronte a un risultato positivo la vita cambi completamente. E invece non è così.
Questo grazie alle cure disponibili oggi. A che punto sono?
Grazie alle attuali terapie si può convivere con l’infezione da Hiv. È necessario seguire correttamente la terapia e seguire i controlli periodici, ma è possibile continuare a lavorare, viaggiare, fare progetti, avere figli e relazioni senza l’incubo del contagio. Infatti, siamo certi che chi ha l’Hiv e assume stabilmente la terapia non può trasmettere il virus. Questo è un messaggio rivoluzionario, che dobbiamo sempre ricordare senza però abbassare la guardia, spingendo sulla prevenzione.
La storia di un paziente che l’ha colpita?
Mi ricordo di una donna che per curarsi veniva da Roma a Milano: voleva evitare che le persone sapessero, soprattutto i figli. Era infatti una mamma, compagna di un uomo che le aveva trasmesso l’Hiv e che purtroppo era morto di Aids. Lei però non si è ammalata perché aveva scoperto per tempo l’infezione e iniziato subito la terapia. Affrontava questo viaggio di notte, arrivava la mattina, faceva la visita, le consegnavamo le pastiglie e tornava a casa. Quando si è sentita pronta, l’ha comunicato ai figli ed è stata una sorpresa perché l’hanno immediatamente rassicurata sul fatto che per loro non sarebbe cambiato niente. Da allora è seguita in un centro romano.
Lei è anche mamma di tre figlie: una futura biologa e due liceali. Come ha insegnato alle sue figlie la prevenzione dalle malattie sessualmente trasmissibili?
In modo molto naturale. Vista la pratica in ambulatorio, forse per me è più facile parlarne anche a casa. Più ne parli, più lo conosci e più facilmente lo affronti con serenità. Questa è una regola che vale per tutti, che aiuta a diffondere meglio il messaggio soprattutto tra i giovani.
Essere mamma ha influito sulla vita lavorativa?
Dico sempre che le mie tre figlie sono stati tre Master universitari. Le competenze organizzative e relazionali le ho sviluppate con la maternità. Mi ha aiutato ad entrare in empatia anche con persone che hanno aspetti del carattere molto lontani dal mio, ad avere un approccio più concreto e anche più legato all'evidenza dei fatti e non solo delle parole.
Capacità che sono state fondamentali per affrontare ben due pandemie. Come si reagisce in questi casi?
Con forza e passione per il proprio lavoro. Con Covid-19 mi è sembrato di essere tornata un po’ a quella fase in cui non sia avevano le armi per combattere l'Aids. I farmaci sono arrivati nel periodo in cui ho cominciato l'internato all’Ospedale Sacco di Milano con il professor Mauro Moroni, un luminare che ha guidato un gruppo di brillanti ricercatori credendo fortemente nelle sperimentazioni cliniche. Era infatti l’unico modo per avere in anteprima le terapie che hanno permesso poi di fermare la pandemia da Hiv. La voglia di fare ricerca scientifica nasceva proprio dal grande bisogno urgente di trovare una cura. La stessa che abbiamo avuto con Covid-19, e anche in questo caso la ricerca ha fatto la differenza, permettendo di avvicinare tanti giovani medici alla nostra specialità.
Questa specialità, le Malattie Infettive, che ruolo avrà nel futuro?
La medicina moderna richiede specialisti in grado di saper gestire le infezioni, in particolare i batteri multiresistenti. E, di conseguenza, le terapie antibiotiche, soprattutto in ambito ospedaliero.
Nel Nuovo Policlinico sono previsti ulteriori percorsi infettivologici dedicati alla gestione dei pazienti con infezioni complesse, oppure alle persone che hanno un sistema immunitario compromesso e che richiedono l’uso di chemioterapie o di terapie con farmaci immunomodulanti.
Le Malattie Infettive assumono quindi sempre di più un ruolo trasversale a tutte le condizioni cliniche.
*“La famiglia Manzoni” di Natalia Ginzburg
Giornata Mondiale contro AIDS - 1 Dicembre