
#RICERCA. Parkinson: un innovativo modello 3D per studiare la malattia e testare nuove terapie
— di Ilaria Coro, con la consulenza scientifica degli specialisti del Policlinico di Milano
Un innovativo modello 3D per studiare la malattia di Parkinson, la patologia neurologica in più rapida crescita nel mondo, che solo in Italia colpisce circa 300.000 persone. Si tratta di un organoide che riproduce il mesencefalo, l'area cerebrale più colpita dalla malattia, ottenuto da cellule staminali derivate da pazienti con mutazioni del gene GBA1, uno dei principali fattori di rischio genetici. Lo studio - sviluppato dai ricercatori coordinati dai neurologi del Policlinico di Milano Emanuele Frattini e Alessio Di Fonzo e pubblicato sulla rivista Brain - permette di approfondire i meccanismi della malattia e di testare nuovi farmaci, aprendo la strada a terapie sempre più mirate.
La malattia di Parkinson è la seconda malattia neurodegenerativa più diffusa dopo l’Alzheimer e si stima che nei prossimi 30 anni il numero di casi possa raddoppiare. Si manifesta in diverse forme, accomunate dalla degenerazione dei neuroni del mesencefalo, una regione profonda del cervello responsabile della produzione di dopamina, un neurotrasmettitore essenziale per molte funzioni, tra cui il controllo motorio. La carenza di dopamina provoca sintomi come rallentamento dei movimenti, tremori, rigidità e altre alterazioni neurologiche.
Un ruolo chiave nella progressione della malattia è giocato dall’accumulo della proteina α-sinucleina, che forma aggregati noti come corpi di Lewy e la cui disfunzione compromette la funzionalità neuronale. Inoltre, studi recenti hanno evidenziato che alcune forme di Parkinson sono associate a mutazioni genetiche che alterano i meccanismi di degradazione e riciclo delle molecole cellulari. In particolare, oltre il 10% dei pazienti presenta mutazioni nel gene GBA1, che codifica l’enzima β-glucocerebrosidasi (GCase). Quando questo enzima è alterato, non riesce a smaltire correttamente il lipide glucosilceramide, il cui accumulo favorisce l’aggregazione della α-sinucleina e contribuisce alla degenerazione neuronale. Tuttavia, la mancanza di modelli sperimentali affidabili ha finora reso difficile comprendere il legame tra la glucocerebrosidasi mutata e la malattia.
Per rispondere a questa esigenza è stato sviluppato un protocollo innovativo che consente di ricreare in laboratorio “l’ambiente” e le alterazioni a livello genetico in cui si sviluppa la malattia. Un risultato ottenuto grazie al lavoro coordinato dagli specialisti della Neurologia - diretta dal Prof. Giacomo Comi - del Policlinico di Milano Emanuele Frattini e Alessio Di Fonzo del Centro di riferimento per la diagnosi e la terapia delle malattie neuromuscolari e neurodegenerative "Dino Ferrari" dell’Ospedale e dell’Università degli Studi di Milano.
Partendo da una biopsia cutanea di pazienti con mutazioni nel gene GBA1, i ricercatori hanno riprogrammato i fibroblasti presenti nel derma per ottenere cellule staminali pluripotenti indotte (iPSC), capaci di differenziarsi in vari tipi cellulari. Attraverso una specifica stimolazione, queste cellule sono state trasformate in mini-mesencefali tridimensionali, con caratteristiche molto simili a quelle osservate nei cervelli dei pazienti.
Questo innovativo modello ha permesso di individuare un’alterazione cruciale: l’enzima GCase mutato viene trattenuto nel reticolo endoplasmatico, un compartimento cellulare che controlla la qualità e la funzionalità di molte proteine. La sua ridotta attività favorisce l’accumulo di glucosilceramide e la formazione di aggregati di α-sinucleina simili ai corpi di Lewy, riproducendo le caratteristiche della patologia che si osservano nel cervello dei pazienti e fornendo nuove informazioni sui meccanismi della malattia.
Oltre a migliorare la comprensione della patologia, questo specifico organoide-mesencefalo ha permesso di testare due farmaci attualmente in fase di sperimentazione clinica: ambroxolo e GZ667161. Entrambe le molecole si sono rivelate efficaci nel ridurre in modo significativo gli aggregati tipici della malattia di Parkinson, aprendo nuove prospettive per lo sviluppo di terapie mirate.
“Si tratta di un grande lavoro di squadra internazionale, che ha visto coinvolti importanti esperti sulla malattia di Parkinson. I risultati di questo studio evidenziano il potenziale degli organoidi mesencefalici come strumento innovativo per approfondire la comprensione dei meccanismi della malattia di Parkinson e per promuovere lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici mirati. Grazie a questi avanzamenti, la ricerca sta facendo passi significativi verso la possibilità di sviluppare trattamenti sempre più efficaci, con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita dei pazienti affetti da questa patologia neurodegenerativa” commenta Alessio Di Fonzo “Come tutte le nostre attività di ricerca, anche questo importante lavoro è stato sostenuto dall’Associazione del 'Centro Dino Ferrari' ETS”.